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Istantanee di Novoli

7 gennaio 2011

Sono tre i nuclei attorno a cui desidero costruire questa presentazione richiestami dalla calorosa insistenza di due amici di vecchia data, Piergiuseppe De Matteis e Mario Rossi, cui non ho saputo dire di no, e proveniente da un paese, Novoli, che mi sta molto a cuore e che risulta essere tra i più “effervescenti” in tema di proposte culturali, particolarmente in questi ultimi anni.

Prima di tutto l’importanza degli archivi fotografici e l’attenzione loro riservata; poi la straordinaria potenzialità – in termini di godimento delle sue inesauribili risorse - del territorio della nostra provincia; infine il dovere morale di “illustrare” la  terra in cui siamo nati.

È naturale quindi orientare il discorso sulla fotografia, sulla sua storia che ha più di un secolo da quando Daguerre mise a punto la tecnica che avrebbe conquistato il mondo, e metterla in rapporto con una delle più gravi defaiance registrata dalla gestione dei nostri beni culturali: mi riferisco alla mancanza di una pubblica fototeca dove fare confluire, per raccoglierli e catalogarli, tutti i materiali disponibili per dare – o restituire – una coscienza perduta: impresa non impossibile né difficile, ove si tenga presente e si voglia cominciare da quanto già conservato e disponibile presso il Museo ela Biblioteca della Provincia, cui potrebbe aggiungersi quant’altro è ancora presso privati o reperibile sul mercato del collezionismo antiquario. Un esempio in positivo, gloria e vanto dell’identità nazionale, sono gli archivi dei famosi fratelli Alinari a Firenze, che tutti conoscono, e si parva licet, ma al solo fine di dimostrare che esiste anche un sud esemplare, l’archivio napoletano di Parisio, proprio recentemente approdato nel leccese in occasione dell’evento “città del libro”2010. In tale contesto – ma dico cose che tutti sanno e questo libro lo dimostra tangibilmente – anche Novoli ha un suo ruolo specifico.

Il secondo punto riguarda la fruizione del paesaggio: dalla preistoria alle civiltà preclassiche (anche qui non è da dimenticare il ruolo di Giuseppe Palumbo, novolese d’adozione, cui dobbiamo il suggestivo censimento fotografico dei dolmen e dei menhir salentini) dall’età romana a quella bizantina, e poi fino al Rinascimento, al Barocco, al Novecento appena trascorso, le più suggestive immagini di monumenti e architetture, bellezze naturali e celebri personaggi sono disponibili in fotografia ed ogni fotografia è a sua volta un documento (si pensi a testimonianze sparite per incuria dell’uomo o edacità del tempo e a restauri più o meno rispettosi dell’originale) oltre ad essere un’emozione. Si potrebbe allestire una nuova completissima edizione di “Questo è il Salento” (uso il fortunato titolo di Antonaci del 1956) in breve tempo e con l’ambizione di non trascurare nemmeno un frammento dell’immenso patrimonio di cui siamo in possesso. Per avere idea del salto di qualità effettuato dal progresso, basti pensare ai taccuini che accompagnavano i viaggiatori dal grand-tour al tardo Ottocento (fra loro il nostro Cosimo De Giorgi ottimo disegnatore) o alle stampe classiche dei libri di corografia (di cui trovate un accurato elenco nel saggio che precede le immagini): alla matita si è sostituita la macchina fotografica, una specie di “occhio in più”, non influenzabile, neutrale, spietato forse, ma sempre vero, con quanto vantaggio per la storia è inutile stare qui a ribadire. A tutto ciò si aggiunga il grande sviluppo dell’editoria e la diffusione quasi capillare nel vasto ambito territoriale: ognuno dei cento comuni ha la sua storia, ad una prima se ne è aggiunta in moti casi una seconda, il ricorso alla fotografia è ormai canonico e si scava ogni volta alla ricerca del nuovo, dell’inedito, del curioso, dell’impensabile. Insomma un Salento in fotografia (o in cartolina se preferite) che non finisce di stupire chi ci osserva per la prima volta o noi stessi che pure abbiamo lo sguardo ormai educato a questa operazione. Un Salento ricco di tesori, in grado di raccontare una storia millenaria, dal castello alla chiesa, dalla piazza al monumento, dalla villa comunale alla fontana.

E si potrebbe concludere con il richiamo del De Ferrariis Galateo, maestro di tutti gli storici, esplicitato nella lettera a Luigi Paladini: “patrium solum illustrare debemus”, inteso certamente come imperativo morale a non sfigurare nei confronti dei grandi che ci hanno preceduto, ma anche più modernamente e con una leggerissima forzatura, a conservare intatto alle generazioni successive il patrimonio ereditato, immortalandone l’immagine per evitare che venga deturpato. Ancora una volta, insomma, documentare attraverso l’immagine, ricorrendo a questo straordinario medium di cui possiamo disporre, diversamente da chi è vissuto nel passato.

È stato sempre di moda, da Erodoto ad Almagià, uno dei maggiori geografi del Novecento, il binomio genti e paesi che qui torna attualissimo. In questo libro che rende omaggio ai fotografi anonimi o professionisti che percorrevano le vie polverose del Salento d’antan per ritrarre un campanile o le donne intente alla raccolta delle olive, ed insieme a loro anche alle carrozze, alle biciclette (famosissima ancora una volta quella di Palumbo, che lo accompagnava immancabilmente), alle automobili di cui si servivano, c’è tutta la civiltà che connota nel suo piccolo una orgogliosa e vetusta comunità. Perché questa civiltà non sia dolosamente spinta sul viale del tramonto, perché un retaggio di millenni non venga sperperato nel nome dell’effimero improduttivo, per contrastare – come scrivono anche De Matteis e Rossi – l’oblio e la distruzione, queste fotografie parlano e devono continuare a parlare. L’eccesso di urbanizzazione, la superficialità e l’incuria degli uomini, la frenesia di apparire piuttosto che di essere (verbi, anche questi, che ci riportano al linguaggio della fotografia) sono i nemici del momento: dal suggestivo “album” che segue ci viene uno stimolo alla riflessione, dalle immagini un efficace antidoto ed un vigoroso ammonimento.

Questo viaggio a ritroso che sembra quasi un sogno, attraverso l’obiettivo di un apparecchio fotografico che ha il pregio di non lasciarsi influenzare e di certificare la verità, è un’esplicita, ennesima dichiarazione d’amore: ringrazio chi ci ha permesso di farlo e mi sottoscrivo entusiasticamente.

 

 

Alessandro Laporta

Direttore Biblioteca Provinciale “Nicola Bernardini”

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