Il Codice di Maria D’Enghien

Nella penisola italiana durante l’Età di Mezzo nel campo giuridico
vigeva il caos e l’incertezza del diritto, poiché le norme variavano da
Stato a Stato, da feudo a feudo, da città a città, in virtù degli usi e
delle consuetudini locali dovute, tra l’altro, al succedersi delle
diverse dominazioni e, ovviamente, all’arbitrio dei Signori dei luoghi.

Dopo l’anno Mille e con il risveglio umanistico, nel XII secolo so-
prattutto, la Scuola di Bologna cercò di recuperare la grande tradi-
zione del Diritto Romano e, in particolare, il Corpus Iuris Iustinia-
neum, ma l’impresa era ardua, per cui in quel tempo e addirittura fino
al XIX secolo prevalse l’adozione dello ius commune, ossia il diritto
comune costituito dall’insieme di norme giuridiche via via adattate
alle specifiche condizioni sociali e politiche dei tempi.
Come si
evince dalla stessa specificazione “comune”, questo diritto si sviluppò
in contrapposizione con altri diritti che si presentavano come
particolari e speciali. Questi, oltre al diritto feudale, furono quella
serie di diritti locali che, codificati o allo stato consuetu-dinario,
fiorivano nel corso del Medioevo e dell’Età Moderna. Il loro rigoglio
va spiegato anche alla luce della frammentazione politica e dello
scarso riconoscimento di un’autorità giuridica alla figura del-l’
imperatore o del re, cui il diritto comune faceva invece riferimento.
Quest’ultimo si limitò spesso a svolgere una funzione di raccordo e di
intermediazione tra i vari diritti locali, accettati in quanto frutto
delle particolari condizioni di ciascuna realtà politica e sociale.

Alla base del Diritto Comune vi era essenzialmente il Codice
Giustinianeo, anche se grande peso ebbero le acquisizioni dovute allo
ius novum dei compilatori. Sin dalla fine del XII secolo e soprat-tutto
a partire dal Duecento furono promulgati gli Statuti Comunali,
costituiti da un corpo di norme e consuetudini volte a reggere e a
controllare l’insieme della vita cittadina nei singoli comuni me-
dioevali. Raccolti in libri statutari, gli statuti costituiscono una
viva testimonianza dell’evoluzione costituzionale della città tra XIII
secolo e la prima Età Moderna.
Tra la fine del XIV secolo e fin quasi
alla metà del secolo successivo Lecce e la sua vasta Contea erano
governate da Maria d’Enghien (1367 – 1448), già giovanissima contessa
dal 1384 e poi Regina del Regno di Napoli dal 1407. Maria in prime
nozze aveva sposato, nel 1385, Raimondello Orsini del Balzo, Principe
di Taranto (1361 – 1406), dal quale generò Giovanniantonio, ultimo
conte di Lecce, ed essendo rimasta vedova, dopo aspre lotte con il Re
Ladislao che voleva impadronirsi del Principato di Taranto, convolò a
nuove nozze con costui, divenendo Regina solo di nome, ma non di fatto,
poiché il nuovo consorte, avendo con il matrimonio realizzato i suoi
obiettivi, relegò Maria nel Castel dell’Ovo a Napoli, dal quale essa
riuscì a fuggire rocambolescamente, ritornando a Lecce dove, amata da
tutti, concluse la sua travagliata esistenza.
Tre anni prima della sua
morte Maria d’Enghien, il 14 luglio 1445, promulgò gli Statuta et
capitula florentissimae civitatis Litii, un corpus giuridico che è pure
conosciuto come Codice di Maria d’Enghien, che annovera gli antichi usi
municipali di Lecce, riguar-danti essenzialmente le questioni fiscali,
dalle quali scaturivano numerosi contenziosi tra i privati e tra il
potere municipale e quello regio. Tali norme, tutto sommato,
costituiscono l’espressione della volontà popolare, e di suo Maria vi
aggiunse ben poco, ossia qualche nuova grazia e privilegio.
Al pari di
altre città dell’epoca Lecce comprendeva sostanzialmente i ceti del
clero, della nobiltà e del terzo stato, che a sua volta an-noverava i
ricchi borghesi, ossia coloro che “vivevano nobilmente”, i
professionisti, i commercianti, gli artigiani e la plebe. La città, in
prevalenza, esprimeva un’economia agricola articolata in varie atti-
vità, con relativi dazi e relative tasse ed esenzioni, di cui godevano
pure clero e nobiltà, ceti che con gli Statuti si garantirono
legalmente i propri privilegi. E così nobili ed ecclesiastici continua-
rono a non pagare il dazio sul pane, sul grano, l’orzo, le fave, l’
avena, il miglio, le sementi, il lino e il mosto. I baroni, nonché
coloro che “vivevano nobilmente”, erano esentati da ogni tributo per i
loro animali da sella, da tiro e da lavoro.
Dal Codice risulta che su
contadini e artigiani gravava pressoché tutta la fiscalità e i
lavoratori di campagna erano valutati in denaro al pari delle terre che
coltivavano, e la terra stessa si apprezzava, più che per il suo valore
intrinseco, per la quantità di villani che la abi-tavano.
La nobiltà,
poi, fece sancire negli Statuti un bando del Capitano di Lecce,
Martuccio Caracciolo, che nessun aumento di salario doveva essere
corrisposto ai giornalieri di campagna, non solo, ma per evitare le
malicie de li huomini che soleno fare, era ordinato che non sia homo
alguno che desse ne altre cose alli dicti jurnalieri, in quantunche
avessero meno de grane XII lo giorno, per non fare cosa nova.
E così, a
Lecce i ceti dominanti sfruttavano i lavoratori, ai quali il misero
salario a volte non riusciva a garantire la sopravvivenza propria e
della famiglia, ma, all’epoca, nella città non vi fu alcuna protesta o
sommossa per la precarietà del lavoro e dei salari, diversamente da
quanto già accadeva in alcuni comuni dell’Italia centro settentrionale
e persino a Napoli. Per tutelare i Leccesi e per scongiurare l’afflusso
di forestieri in città, gli Statuti di Maria d’Enghien per costoro
stabilirono tasse più onerose di quelle che pagavano i locali.
Gli
Ebrei, come altrove, anche a Lecce vennero discriminati, sicché per
essere riconosciuti furono obbligati a portare un segno rosso sul
petto. Incorrevano in pene se un loro animale danneggiava le altrui
proprietà. I macellai non potevano acquistare carni che un ebreo avesse
toccato, né gli ebrei potevano, durante la Quaresima toccare alcunché
di commestibile. La comunità ebraica di Lecce non fruiva di alcuna
grazia o esenzione, anzi era gravata da tante restrizioni e gli Ebrei,
in quanto cittadini leccesi, al pari degli altri dovevano rispettare
gli obblighi, come il provvedere in proprio alla manuten-zione di un
quarto delle mura.
Nel Codice di Maria d’Enghien vennero poi stabilite
le norme per il governo della città e della sua amministrazione. Fu
stabilito che il Sindaco era direttamente responsabile del patrimonio
cittadino, di cui aveva in consegna l’inventario dei beni mobili ed
immobili. Egli doveva diligentemente custodire le scritture riguardanti
l’Università ed era obbligato a render conto dell’amministrazione agli
uditori ed al maestro razionale. Se però avesse contravvenuto ad una di
questa disposizioni, non avrebbe percepito gli emolumenti della sua
carica, che per un terzo sarebbero stati versati personalmente alla
Contessa di Lecce e la parte restante all’Università.
Per quanto
attiene la pulizia interna della città gli Statuti contem-plano norme
rigorose che, tra l’altro, proibivano l’uso di armi letali e l’
esercitarsi al bersaglio nei luoghi pubblici. Era vietata la vendita di
sostanze velenose a uomini e donne di cattiva reputazione e in ogni
caso il venditore era obbligato ad annotare il giorno in cui la
sostanza era stata venduta e chi l’aveva acquistata.
Protetto e
organizzato era il commercio, ma le frodi venivano punite severamente.
Lecce aveva poi il monopolio degli agrumi, i cui alberi non potevano
essere trasportati per piantarli altrove. Argentieri, sarti,
confettieri, falegnami, cuoiai ed altri ancora, che comunque si
occupassero di industrie, pagavano un tributo per esercitare il loro
commercio, e così pure i mercanti.
Conservato in originale nell’
Archivio di Stato di Lecce, il Codice di Maria d’Enghien più volte è
stato pubblicato, ma l’edizione critica ed analitica, dotata di esame
codicologico e paleografico, nonché della descrizione interna, si deve
a Michela Pastore che nel 1979 dette alle stampe il suo poderoso
studio, corredato dalle foto della scrittura originale e della
traslitterazione del testo con moderni caratteri tipografici. Scritto
nel latino quattrocentesco e con il volgare leccese di quel tempo, il
Codice non si presta ad una facile lettura ed interpretazione, anche
per l’uso di termini desueti, spesso legati ad arti e mestieri da tempo
ormai scomparsi. Ecco allora la necessità di rendere accessibili a
tutti le norme emanate da Maria d’Enghien: a ciò ha pensato Gaetanina
Ferrante Gravili, docente emerita di lettere classiche, valente
epigrafista ed innamorata della storia di Lecce, la quale ci propone la
versione in lingua italiana corrente, restando il più fedele possibile
alla scrittura originaria del testo che, con quest’opera divulgativa,
non resterà esclusiva frui-zione da parte di pochi e pazienti dotti, ma
si offre alla comprensione di tutti coloro che intendono conoscere un
peculiare aspetto della storia di Lecce.

Mario De Marco

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Pubblicato da Mario Rossi

Mario Rossi è nato nel 1941 a Novoli (Lecce). Salentinologo autodidatta, si è autoacculturato attivandosi come ricercatore di documenti inediti d’epoca, organizzatore di esposizioni d’arte, ed editor di pubblicazioni realizzate per Il Parametro, casa editrice e associazione culturale, della quale è stato il referente primario (Il Parametro). Bibliofilo e collezionista, dispone di una notevole raccolta libresca d’autori e studi salentini, e di 3.500 “santini” più volte utilizzati (e disponibili) per l’allestimento di esposizioni monotematiche o specifiche.

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